Castelnuovo dei Sabbioni (sabbione, in gergo locale, è l’argilla) ha origini prima del Mille. Un abitato feudale costruito, come tanti altri nel Valdarno, in altura a difesa dalle incursioni barbariche e a causa di un fondovalle paludoso e suscettibile di inondazioni dell’Arno. Dopo il Mille entra nell’orbita fiorentina, politicamente e economicamente, in quanto parte del contado della città. Da Firenze riceve protezione, in cambio rifornisce di cerali, vino e olio, data la dolcezza del clima e la fertilità del terreno. Molti casati nobiliari fiorentini hanno possedimenti immobiliari e terrieri in zona. Lo stesso Spedale degli Innocenti (istituzione fiorentina per l’infanzia abbandonata) tiene sul posto una grandiosa fattoria.
Castelnuovo è dunque un centro rurale attivo a contatto con la realtà di Firenze che ha nel Valdarno i suoi avamposti difensivi. Nel sottosuolo castelnuovese giace una ricchezza ancora misconosciuta: la lignite. Il processo di formazione del fossile risale a circa 3 milioni di anni fa quando nella valle cresceva una lussureggiante foresta tropicale. I vari assestamenti della crosta terrestre determinarono nel tempo l’abbassamento del suolo e l’innalzamento della catena appenninica. Le acque di superficie, impossibilitate a defluire, finirono per allagare l’estesa foresta fino a formare un’enorme torbiera. La velocità di sprofondamento aumentò, il livello delle acque salì, coprì la torbiera e si formò la più ampia conca lacustre dell’Italia pliocenica. Nel tempo si sedimentarono nel lago sabbie, ciottoli e argille. Strato dopo strato si avviarono lunghi e complessi processi chimici, meccanici e biologici che produssero la carbonizzazione di quell’enorme accumulo di resti vegetali: la futura lignite.
I cambiamenti climatici nel tempo mutarono ancora il volto della valle, mentre in sotterraneo giaceva la lignite. Quando e come è stata scoperta? Forse fin dai primi uomini che abitarono la valle, diventata terra fertile e produttiva, perché il fossile affiorava qua e là in superficie o avvertiva della sua presenza con inspiegabili fumi che esalavano dal terreno e, a contatto con l’ossigeno, si incendiavano. Strani fuochi che rosseggiavano a lungo nella campagna. Tra il XV e il XVI secolo i primi naturalisti iniziarono a studiare questi fenomeni. Se ne interessa anche Cosimo dei Medici al quale giungono continue lamentele da parte dei nobili proprietari terrieri della zona che denunciano la presenza di un acre odore (quello che io ho definito Profumo di lignite) che “appuzza” i loro preziosi vini di uva malvasia. L’interesse scientifico per quella “cosa” nera che affiora dal terreno si accentua nei secoli seguenti e se ne intuisce la possibilità di un utilizzo domestico e per i fabbri e le fornaci locali. Solo nella seconda metà dell’800, dopo l’Unità d’Italia, la potenzialità del fossile viene sfruttata a scopo industriale. Inizia l’attività estrattiva prima a cielo aperto, seguita da quella in sotterraneo. La valle perde definitivamente la sua fisionomia agreste. Gli uomini da agricoltori diventano operai. Nasce la “cultura” dei minatori. Le miniere costituiscono il bacino minerario più grandioso della specie in Italia (52% della produzione nazionale annua). L’economia della zona e dell’intero Valdarno si avvia verso i più alti indici di industrializzazione. La lignite infatti favorisce la nascita e lo sviluppo di molteplici industrie e infrastrutture. I minatori sono anche i promotori di quella coscienza operaia e di quella civiltà del lavoro che saranno al centro della storia valdarnese.
Nel secondo dopoguerra, dopo una momentanea ripresa, il mercato lignitifero subisce una forte contrazione per l’introduzione in Italia di combustibili esteri, solidi e liquidi. La Società Mineraria non sa o non vuole pensare a piani di ristrutturazione e diversificazione. Affronta la crisi con un progetto innovativo: il Progetto S. Barbara, che prevede la chiusura delle miniere in sotterraneo e lo sfruttamento integrale del giacimento lignitifero attraverso la coltivazione “a cielo aperto” con mezzi meccanici tecnologicamente avanzati. Il prodotto estratto non più commercializzato, viene utilizzato per il funzionamento di una centrale termoelettrica costruita in loco. Termina così l’epoca dei minatori. Enorme la disoccupazione per l’automatismo che caratterizza il nuovo piano di lavoro. Si attraversano momenti di forte sbandamento e di lotte operaie a cui, nel breve volgere di un quarantennio, si è aggiunge lo sconvolgimento totale del territorio, la demolizione di tutti i centri abitati del bacino lignitifero: villaggi minerari, nuclei sparsi e Castelnuovo dei Sabbioni. Quasi un olocausto per la lignite. Per la popolazione ha significato evacuazione, esproprio, esodo.
MINATORI
Quando scendeva la sera sembravano lucciole,
ma non uscivano a vedere le stelle.
(Da: Profumo di lignite)
Segnati nel volto dalla polvere nera della lignite. Occhi grandi di chi nel buio dei cunicoli cerca la luce. Fisici un po’ ossuti, braccia nerborute, gambe solide. Pelle riarsa dal sole dei piazzali o dal calore delle gallerie. Passo un po’ lento, guardingo, di chi è abituato a muoversi con cautela su un terreno sempre difficile. Spalle un po’ curve per l’abitudine a stare in ambienti ristretti, sotto un tetto di terra sempre troppo vicino. Intrappolati in una nera ragnatela di gallerie, galleriozzi, rinquarti, nicchie; i piedi che guazzano nella fanghiglia; i brevi bagliori delle lampade ad acetilene. Nudi fino alla cintola; sudore che cola; odore e sapore di lignite che ti impiastriccia il corpo, ti stravolge la fisionomia, ti penetra dentro, nei polmoni e nell’anima. I colpi di piccone sono i soli attimi reali. Poi un’agilità improvvisa nei movimenti, quasi uno scatto felino, che nasceva da quelle corse rapide nel tempo, subito dopo l’accensione della mina per portarsi al riparo negli anfratti dei cunicoli. Corse con il pericolo, contro l’agguato della morte. Uomini che ogni giorno vivevano l’ansia, la paura, l’angoscia della morte, perché laggiù sotto lei si aggirava inquieta. Ma non la temevano. I più la ignoravano. Ed era il dispetto più grande che potessero farle. La morte li seguiva? Venisse pure dietro. Loro non potevano tenerla in considerazione: fuori c’era la vita ad attenderli. Vita che si chiamava moglie, figli, genitori, amici… per quella vita occorreva scavare lignite. Scavare. Scavare. Scavare. La lignite era vita. La fatica era vita. Il sudore era vita. L’alito freddo della morte che li seguiva era anch’esso vita: da combattere, da domare. In galleria ci si sentiva vivi e forti. Era la loro terra, quella che penetravano con tutta la loro energia. Quasi un grande ventre di donna da possedere. Si entrava ragazzi, se ne usciva uomini. Complicità, collaborazione, solidarietà: laggiù non erano solo parole. Mentre il corpo era sempre più esausto, lo spirito si rafforzava. Uomini. Tutti. Veri. Forti. Più forti della terra che scavavano, perché non erano uno, ma tanti, e i tanti formavano un solo uomo: l’uomo della miniera.
(Brano da: La Valle delle Miniere)
IN GALLERIA
Fu di quegli anni la mia esperienza di minatore, senz’altro la più faticosa e la più pericolosa delle attività che si svolgevano in miniera. Formai una compagnia con un operaio di cui conoscevo perizia e serietà; come caricatore, scegliemmo la forza e l’agilità di un giovane.
Gli anni di miniera mi avevano temprato e avvezzo a ogni esperienza, eppure, quando quel giorno scesi sotto sapendo che avrei scavato la mia prima galleria, provai un istante di emozione. Un attimo brevissimo, perché nel nostro lavoro non c’era tempo per i sentimentalismi.
Finalmente minatore: a tu per tu con la mia terra e la sua millenaria ricchezza, colma di umidità e di silenzi.
Io e il mio compagno ci disponemmo ai lati del banco di lignite da abbattere. Davanti a noi, nell’incerto chiarore della lampada, un’enorme massa scura. Con l’incastrino – tradizionale arnese del minatore – incominciammo ad aprire delle fenditure laterali della larghezza di un palmo per separare la massa dalla parete. Continuammo fino a raggiungere la profondità di un metro ed un’altezza di due, in modo da ottenere un blocco di circa quattro metri cubi di lignite. Procedevamo con estrema cautela. La parete presentava tratti di minore e maggiore cedevolezza; occorrevano sforzi ed accorgimenti diversi nel colpirla per non rovinare il blocco e non causare pericolosi cedimenti. Terminato da entrambe le parti l’incastro, si passava alla parte più delicata dell’opera: sistemare l’esplosivo. Ero il più anziano e, presumibilmente, avevo più esperienza. Ci avrei pensato io. Invitai il mio compagno ad allontanarsi per mettersi al riparo. Adesso ero solo; davanti a me il blocco da abbattere. Solido. Enorme.
… Depongo l’esplosivo nei punti strategici, sopra e sotto il banco; lo collego alla miccia e do fuoco. Mi allontano immediatamente. Devo fare in fretta. Questo è il momento più pericoloso. Il cunicolo è buio e stretto; sto curvo, raccolto su me stesso per non sbattere contro le pareti; il terreno è sconnesso. Devo stare attento a non inciampare. In fretta. Devo fare in fretta. La distanza minima di sicurezza è di circa quindici metri. Devo farcela. C’è una nicchia che ho scavato in precedenza con il mio compagno. Devo raggiungerla. Mi sembra lontana. Di corsa. Di corsa … La miccia non durerà a lungo. Buio. Oppressione. Sento un bruciore al braccio destro: devo essermi ferito sbattendo contro la parete. Le tempie mi pulsano; manca l’aria. Devo fare svelto, non devo inciampare, non devo sbattere, non devo fermarmi. Corro nel buio e finalmente sono nella nicchia, al riparo dall’esplosione. Appena in tempo. Uno scoppio, il fragore, il fumo, la polvere. Addossati alla parete, io e il mio compagno in silenzio, mentre intorno a noi c’è l’inferno …
Per circa dieci minuti, restammo nella stessa posizione. I ventilatori, dislocati nei vari punti della galleria, stavano funzionando. Dovevamo attendere che il fumo e la polvere si fossero dispersi, se non volevamo rimanere soffocati.
A poco a poco, i contorni del nostro abitacolo cominciarono a farsi più nitidi. L’aria tornava ad essere respirabile. Ci dirigemmo verso il blocco abbattuto: davanti a noi, la lignite frantumata.
Fu il nostro primo carico. Da allora, ogni giorno lo stesso rituale, sempre uguale e sempre ugualmente carico di tensione, fatica e pericolo.
Incastro. Mina. Accensione. Scoppio.
Le mani si escoriavano per raccogliere quanta più lignite possibile. I carrelli si riempivano uno dopo l’altro. Lavoravamo a cottimo, il che aumentava la pericolosità del lavoro. Infatti, per necessità o avidità di guadagno, spesso dimenticavamo le più elementari regole di prudenza. C’era chi, dissolto il fumo dello scoppio, invece di raccogliere i pezzi di lignite frantumati, tentava di staccare la parte del fossile rimasta attaccata. Un pezzo grosso che avrebbe significato maggior guadagno, ma che più di una volta si è staccato soffocando in una nube nera il grido dell’uomo rimasto sotto. Seguiva una confusione dolorosa, il lavoro che si interrompeva, il correre convulso alla ricerca di soccorso, le urla, la paura nei nostri occhi spalancati, il pallore dei nostri volti neri di polvere, l’orrore, la pietà di fronte al corpo martoriato del compagno morto, la rabbia … La miniera ogni tanto chiedeva il suo olocausto.
Incastro. Mina. Accensione. Scoppio.
Altra imprudenza dettata dalla miseria: quando il banco di lignite aveva molte venature argillose e appariva più facilmente attaccabile, c’era chi, per risparmiare l’esplosivo che veniva decurtato dalla paga, tentava di staccare la lignite con la sola forza delle braccia. Dopo, era troppo tardi e la vita dell’uomo spesso continuava su una sedia a rotelle.
Incastro. Mina. Accensione. Scoppio.
E il fuoco. In miniera il fenomeno faceva la sua comparsa generalmente nelle gallerie abbandonate. I detriti rimasti, a contatto con l’ossigeno che riusciva a filtrare da nuove gallerie, si incendiavano. L’aria si surriscaldava. La temperatura saliva a dismisura. Anche oltre i 50 gradi. Un inferno di calore per gli operai che stavano lavorando nelle vicinanze. Coloro che si trovavano dove c’erano più di 29 gradi avevano diritto ad una maggiorazione del salario: un tanto per ogni grado in più. Ma lavorare vicino al fuoco era talmente intollerabile che nessun guadagno era adeguato. Un calore che inebetiva. Ci inzuppavamo di sudore. Durante un turno si torcevano maglia e pantaloni anche tre o quattro volte. E poi il fuoco vicino significava un fuoco lento, senza fiamma, una brace ardente che bruciava anche l’ossigeno che respiravamo e poteva provocare la formazione di un gas mortale, il temutissimo “acido”, nemico invisibile, e per questo ancor più insidioso che ci costringeva a stare continuamente all’erta. Nessuna debolezza, dunque, anche se la voglia di accendersi una sigaretta era forte..
Nonostante tutto, non ho mai pensato che il mio lavoro di minatore fosse più rischioso di tanti altri. Spesso i veri nemici erano dentro di noi, nell’abitudine che familiarizzava le insidie, faceva sottovalutare il rischio e dimenticare le indispensabili cautele.
In fondo, amavo la miniera. Significava il pane in tavola, un vestito nuovo per le feste, le scarpe da inverno per i miei figli … A volte penso che la miniera si impadroniva della nostra anima e si faceva amare e accettare per quello che era: dura, pericolosa, infida, ma era la nostra terra che si donava. Un incomprensibile amore che nasceva nel suo ventre profondo, caldo, oscuro.
ESODO
“Si deve lasciare la propria casa, il proprio paese e non si tornerà più. Nessuno potrà tornarci più, perché sarà proprio lui, il paese, ad andarsene per sempre”. Un pensiero che faceva male, ma la notizia del prossimo sgombero era giunta in ogni casa e una pena sottile toglieva forza e volontà ai movimenti. Presto ogni casa sarebbe stata deserta. Silenziose le terrazze, disadorne le finestre: via i fiori, i colori, i suoni, le voci, i profumi, via tutto. Mai più ci sarebbe stata un’altra estate da vivere lì fuori all’aperto; mai più sotto quella luce di stelle. Mai più. E mai, come in quella calda sera d’estate, il nostro piccolo villaggio era sembrato un luogo così desiderabile.
Mio padre, in un primo momento, si rifiutò di partire. La nuova destinazione proprio non gli piaceva. “Preferisco dormire in una capanna.” diceva. La pensavo come lui e piagnucolavo. Le donne piangevano e l’una chiedeva all’altra: “Perché piangi?” e di rimando: “E te? Perché anche te piangi?” Non servivano risposte. Era tutto così incerto e difficile da accettare.
Ricordo il nonno. Da tempo era paralizzato. Il giorno del trasloco fu caricato su un’autoambulanza. Lo vidi allontanarsi con lo sguardo fisso, impietrito, verso la sua casa, il suo paese. Un’espressione, la sua, d’impotenza, come, e forse più, delle sue gambe immobili.
Partire. È l’ora. Si raduna la propria roba. Cerchi di selezionare quanto devi portar via e provi dentro una lacerazione. Guardi le stanze che si stanno svuotando, i muri sempre più nudi. Disordine. Confusione. Squallore e tristezza. Ti affacci ancora una volta alla finestra per ritrovare ciò che non ci sarà mai più. È la fine. Devi andartene, ma senti i piedi pesanti. Le tue cose sono già tutte ammucchiate e pronte per partire. Manchi solo tu. Devi andare. Un mondo nuovo ti aspetta e forse tutto sarà migliore. Non importa chiudere la porta. Non entrerà più nessuno nella tua casa. E poi non è più la tua, e fra un po’ di tempo, non sarà più neppure una casa… Ti allontani e ti accorgi che non stai respirando. Il tuo volto è bagnato. Eppure fuori c’è il sole.
Anno dopo anno tutto si è compiuto. Alto sulla valle, c’è un nuovo paese, omonimo del vecchio: è Castelnuovo dei Sabbioni, caparbiamente risorto, simbolo della vita che continua là, dove tutto si è smembrato e dissolto. Ma “quella” valle delle miniere non esiste più. È rimasta un bellissimo ricordo. È esistita ed è racchiusa nel cuore. Nessuno potrà più vedere quell’angolo, quel sentiero, quelle abitazioni, ma potrà e dovrà sentirsi più ricco, perché ogni via, ogni pietra, ogni luogo abitato, piccolo o grande, sono divenuti amore di cui forse nessuno pensava di essere capace; orgoglio delle proprie origini; fierezza di se stessi e della propria terra.
(Adattamento da: “Profumo di Lignite” e “La Valle delle Miniere”)