di Marta Bonaccini

In anteprima, Marta Bonaccini ci regala alcuni passaggi di un libro che pubblicherà a breve e che racconterà, dando parola ad uno dei protagonisti, Bruno del Lago, la storia di una migrazione italiana sconosciuta ai più: La Transumanza.

Si torna indietro nel tempo quando nei lunghi periodi di innevamento, il clima rigido e il terreno scarsamente produttivo dell’Appennino obbligavano a recarsi altrove in cerca di lavoro e dell’indispensabile guadagno. Così ogni anno gli abitanti, soprattutto uomini, sono partiti verso la Maremma. Il loro operato è passato quasi inosservato ai più, eppure ciascuno di loro con enormi fatiche ha potuto sostentare la propria famiglia, ma ha anche contribuito a rendere belle e vivibili zone altrimenti paludose e malsane.

LA STENTA TANTA … E LAVORARE!

Eravamo alla fine di settembre. “Domani partono le bestie, su all’Alpe, fra un mese tocca a noi”. – aveva detto mio padre. – Quest’anno verrai anche te”. Mi ero sentito orgoglioso e eccitato: il babbo mi considerava grande e avrei conosciuto finalmente una terra lontana di cui avevo sempre sentito parlare in famiglia. Avevo 12 anni e sarei andato in Maremma a lavorare per guadagnarsi di che vivere. Ciò che potevamo ricavare dal nostro pezzetto di terra, un po’ per la natura del nostro terreno montano poco produttivo, un po’ per il clima rigido dei nostri inverni, era appena sufficiente per una manciata di grano, due patate e un po’ di fagioli. E la nostra era una famiglia numerosa: il babbo con il fratello, le rispettive mogli e figli, gli anziani genitori.

Appena dopo i Santi, in un grigio mattino di novembre, partimmo assieme ad altri uomini di Badia. A piedi fino a Sansepolcro, da lì, cambiando più di un treno, fino in Maremma. Portavo in spalla un sacco con l’accetta, un po’ di formaggio pecorino, qualche salsiccia, un pezzo di pane, un paio di pantaloni, maglie, calze e mutande lunghe di lana. – Ma non vado in montagna,- avevo obiettato alla mamma che aveva preparato tutto. E il babbo: – Laggiù tira un vento umido. Viene dal mare …

Dopo un viaggio che mi sembrò interminabile, arrivammo nel luogo che ci era stato assegnato per diboscare. Un luogo desolato, tutto bosco e macchia. La prima cosa da fare fu quella di predisporre un riparo: una specie di capanna tirata su con qualche ramo, molte frasche e zolle di terra. All’interno i giacigli per il riposo: frasche e fogliame sopra alcuni rami in modo da non essere proprio a contatto con il terreno. Il nostro letto o, come la chiamavamo, la rapazzola.

Il mattino seguente iniziammo a lavorare. La boscaglia era fitta e impenetrabile. Al suo interno finivamo per scomparire alla vista, l’uno dell’altro. Un territorio selvaggio da dove potevo scorgere solo uno spicchio di cielo. Gli uomini armati di asce, picconi e pennato dicioccavano, io con il pennato ripulivo la ramaglia e via via accatastavo i rami. Così, metro per metro, per l’intera giornata. Poche le parole, se non qualche mugugno o un’imprecazione. Nel folto della macchia si udivano solo i colpi delle accette e gli scricchiolii dei rami tagliati. Avvertivo una gran solitudine. Ciascuno di noi era come se fosse solo con se stesso e la propria capacità di resistere alla fatica, ai disagi, al freddo. Già, il freddo. Io, che ero abituato ai rigori della montagna, che stavo fuori anche quando nevicava, in quella boscaglia umida, sentivo un gran freddo. Lavoravo con le mani intirizzite che scaldavo col fiato o sfregandole sui miei ruvidi panni. Quando mi riusciva, di nascosto, prendevo dalla giacca del babbo la scatola di fiammiferi e al riparo della sterpaglia ne accendevo uno dopo l’altro per scaldarmi le mani. Non so come ho fatto a resistere. All’inizio ero disperato, anche se non lo dicevo. E poi, specialmente i primi tempi, mi mancava la mamma.

Da allora, ogni anno sono tornato nelle maremme. Fatica e freddo. Certi giorni di vento che veniva dal mare e non scherzava. Piegava le querce, i lecci, i pini quasi volesse strapparli da terra, sibilava tra gli arbusti, sferzava la mia pelle. Umido e salmastro, mi appesantiva le mani e il corpo.

Ho percorso tutte le terre dall’Agro Pontino alle maremme grossetane, palmo a palmo, dicioccando, ripulendo terreni impervi, pianure piatte e sconfinate, zone acquitrinose e malsane tra serpi d’acqua e zanzare. Nessuno di noi ha preso la malaria, ma i nostri vecchi raccontavano di tanti giovani montanari che avevano perso la vita per questo. Erano così tristi quelle storie … Come potevi accettare di morire per poter vivere?

Lavoravamo in compagnie: ciascuna aveva il suo Meo, l’uomo che cucinava. Non aveva a disposizione acqua pulita e prendeva quella nelle pozze, quasi sempre piena di moscerini. La sera si mangiava un po’ di minestra o meglio l’acqua cotta con un po’ d’erbe selvatiche, un filo d’olio e se andava bene anche un uovo.

Il più giovane del gruppo faceva l’acquataccio, cioé andava a prender l’acqua con le borracce o un barilotto di legno sulle spalle. Ricordo uno, si chiamava Luca. Si era appena incamminato, quando il cielo aveva iniziato ad oscurarsi. Al ritorno non riconobbe il percorso. Girò e rigirò nella macchia, ma non ritrovò la capanna. Scese la notte e dormì all’addiaccio.

Giunse il periodo di guerra e il lavoro in Maremma s’interruppe. Quando tutto finì, era un disastro. La mia casa semidistrutta, le poche bestie che avevamo, razziate dai Tedeschi. Avevamo bisogno di tutto e l’unica risorsa fu ancora quella di tornare in Maremma. La guerra aveva devastato ovunque e ci toccò andare a piedi e con i mezzi di fortuna che ogni tanto incontravamo. Pensavamo che saremmo tornati a tagliare la legna, ma nel dopoguerra, per scarsità di lavoro, i maremmani ci avevano preceduto. A noi di montagna toccò di fare la carbonella, un lavoro più pesante, sporco, sempre in mezzo al fumo. Nessuno del posto lo faceva volentieri, ma per noi non ci fu scelta. Lavoravamo senza sosta, anche ventiquattr’ore su ventiquattro, senza fermarsi mai. Solo un’oretta in nottata, sulla mezzanotte; uno spuntino con un po’ di pane, un po’ di formaggio, un bicchiere o due di vino e poi, via! di nuovo al lavoro. Abbiamo lavorato come matti. Siamo riusciti a fare anche diciassette carbonaie in una nottata!

Per fare la carbonella si cercava la “piazza”, cioé uno spiazzo riparato dal vento, dove si facevano tanti mucchi di “scaccia”, la frasca di scarto e di tutto quello che si rastrellava dal sottobosco. Poi si dava fuoco e si continuava a portare frasche e rametti; bruciavano e noi si riportavano. E così avanti, senza interruzione. Il legno si riscaldava, diventava infuocato e a questo punto si copriva con la terra. Ogni tanto si muoveva con un forcone di legno per far entrare un po’ d’aria che aiutava la legna a bruciare fino a carbonizzarsi. Venivano fuori dei pezzi piccoli, più leggeri del carbone, si accendevano facilmente e avevano un costo minore. L’azienda li vendeva per i riscaldamenti nelle città, per scaldini, scaldaletti, bracieri. I padroni apprezzavano molto tutti noi che venivamo dalla montagna. Lavoravamo sodo senza guardare l’orologio e quando calava la sera, se c’era la luna a farci lume, non ci fermavamo. Giorni di festa non ce n’erano. Solo a Natale. La domenica a mezzogiorno si smetteva di lavorare e nel pomeriggio potevamo andare in qualche osteria vicina per scambiare una parola con persone diverse da noi. Capitava anche che ci invitassero in qualche casolare. Ma pomeriggi così erano rari. Era inverno, e, fra mangiare, darsi una sciacquata, cambiarsi d’abito, era subito buio. Se poi pioveva, si restava nella nostra capannella con il fuoco nel mezzo, sdraiati sulla rapazzola. Era pericoloso dormire con il fuoco acceso, ma il sonno non era mai pesante con tutto il fumo che impregnava la capanna. Però non avevamo altro modo per riposarsi tanto che uno di noi aveva inventato una specie di poesia che in un punto diceva:

S’erimo andati in Maremma,

si riuscì a costruì una capannella.

Era brutta,ma ci sembrava bella.

Era bella sì, eravamo sempre così stanchi!

Dalle nostre montagne scendevano anche donne e ragazzi. Le prime ribattevano, cioè frantumavano le zolle lasciate grosse dall’aratro o zappavano per far defluire l’acqua dai solchi nelle zone più acquitrinose. Falciavano i fieni e li raccoglievano, mietevano il grano e svolgevano i tanti lavori che l’azienda agricola richiedeva.

Ricordo una ragazza venuta con i genitori per raccogliere le olive. Lavorava e, giovane com’era, desiderava anche svagarsi. Se capitava che in qualche casolare ballassero, andava volentieri, ma aveva solo due vestiti: uno per lavorare, l’altro per cambiarsi. Una, due, tre volte mise sempre lo stesso, poi cominciò a vergognarsene e allora comprò la tinta per le stoffe e gli cambiò colore. E lo ha fatto più di una volta pur di fare quattro salti con un vestito diverso.

Ai ragazzi veniva dato il compito di allontanare gli uccelli dai campi seminati. Il padrone dava a ciascuno un bastone da battere e ribattere su un bombolo. Blum! blum! blum! avanti, indietro, ora di qua, ora di là, quasi sempre di corsa, per tutto il giorno, lungo quei campi sterminati. Era una gran fatica anche se avevano le gambe buone … Mangiare, quello che gli passavano: polenta, zuppa, pane asciutto (se trovavano l’acqua, al massimo lo potevano bagnare), un pezzettin di formaggio, un po’ d’aringa o una sarda.

Non mi vergogno a dirlo: è stata una vita dura e difficile per tutti noi. Ogni anno restavamo laggiù da novembre fino Pasqua, senza mai tornare a casa, spesso senza notizie della nostra famiglia. La stenta tanta e … lavorare.

Adesso, se vai in Maremma, non vedi più macchie e sterpaglie: ti volti di qua e c’è un bel prato, ti volti di là e vedi un campo coltivato o un piano arato. Dentro di me provo un certo orgoglio: il mio lavoro mi ha dato di che vivere, ma ha reso quella terra bella com’è adesso. Un po’ di merito ce l’abbiamo anche noi, gente di montagna, perché abbiamo contribuito a trasformare quei territori malsani e impraticabili in zone fertili e meravigliose da vivere. Quando ci penso, provo una gran soddisfazione e mi ripaga di tutta la stenta che ho provato.